Gentili lettori, ho il piacere e l’onore di presentarvi Giampiero Rorato – http://giampierororato.blogspot.it/ – personalità del mondo enogastronomico di grande spicco,giornalista, scrittore, fondatore e direttore della rivista mensile Pizza e Pasta Italiana, che ci ha regalato un prezioso contributo sulla storia di un vitigno da riscoprire e imparare ad apprezzare: il Raboso.
Presentiamo, pur velocemente, un vitigno storico delle province di Treviso e Venezia, assurto oggi alla DOCG – il Malanotte – seguendo gli studi recentemente compiuti da una seria ricercatrice, la dott.ssa Severina Cancellier, autrice di numerosi studi sulla vitienologia veneta e friulana.Scriviamo sul Raboso “Piave” o “del Piave”, un vitigno ritenuto indigeno, poiché nei secoli ha caratterizzato con la sua preponderante presenza, la pianura del Medio Piave, in provincia di Treviso. È coltivato anche nel padovano, nella zona di Bagnoli, lì introdotto dai monaci benedettini nel corso del Basso Medioevo e chiamato “Friularo”, nome che potrebbe indicare una sua provenienza friulana, ma si sa che un tempo tutto il territorio alla sinistra del fiume Piave veniva chiamato Friuli.Che fosse anticamente presente nella zona del Piave lo conferma anche Jacopo Agostinetti, conoscitore di cose agricole nato e morto a Cimadolmo (TV), che alla fine del ‘600, già ottuagenario, nelle sue memorie che intitola “Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa”, scrive: “ Qui nel nostro paese, che per lo più si fanno vini neri per Venetia di uva nera che si chiama recandina, altri la chiamano rabosa per esser uva di natura forte….”
Dunque, il Raboso era conosciuto, apprezzato e diffuso in quella zona, sicuramente almeno fino dal 1500 e molto gradito a Venezia, poiché portato nelle navi restava perfetto, a differenza degli altri vini che deperivano.L’Agostinetti, oltre ad esaltare l’abilità dei viticoltori delle terre del Piave, indica in un certo qual modo l’origine del nome del vitigno e, a questo proposito, ci sono diverse ipotesi, ma la più probabile è che il nome derivi dall’essere per sua natura un vino acido, come già accennato dall’Agostinetti. Questa ipotesi trova conferma anche nel sinonimo attribuito alla Durella, varietà vicentina coltivata anche nella zona di Breganze e di Asolo, dove, per la sua acidità, viene chiamata Rabbiosa. I riferimenti al vitigno e al vino Raboso continuano anche nei periodi successivi, dalla Accademia Agraria degli Aspiranti, agli scritti di Vianello e di Carpenè. Ma solamente alla fine dell’800, nella Ampelografia Generale della provincia di Treviso, si ha la descrizione, corredata da caratteristiche colturali, di due tipi differenti di Raboso: il Raboso nostrano ed il Raboso veronese.Il Raboso del Piave viene definito dalla Commissione Ampelografica del 1870, “vitigno antico”, “varietà preferibile per vino fino”, da sempre conosciuto e ricercato a Venezia come ”vino di Conegliano”.A questo proposito nel Bollettino Ampelografico del Ministero dell’Agricoltura (1884-87), si legge: “ ancora adesso è il tipo più popolare di vino rosso comune di Venezia e Treviso è il vin di Conegliano, sotto il quale nome s’intende ordinariamente una miscela di vino della bassa pianura con vino Raboso dei comuni di Conegliano, Mareno e Vazzolla. Trovansi memorie di simili vini inviati con grande plauso all’estero: in cantine di ricchi inglesi trovaronsi ancor non molti anni addietro bottiglie di questo vino stato donato e procurato dagli ultimi ambasciatori della Repubblicaveneta”.E i compilatori della Ampelografia continuano: “ Nei terreni ghiaiosi dei comuni di Vazzolla e Mareno è quasi pura e per asperità, colore e speciale profumo di amarasca il suo vino è assai cercato nelle provincie di Treviso, Venezia e in qualche località di quella di Padova per rialzare il corpo e la sapidità di vini poco gustosi e scialbi di colore……Il vino che se ne fa vien considerato come assai resistente, non lo è però per una notevole alcolicità, ma sibbene per la grande quantità di cremortartaro ed acidi che contiene. Invecchiando oltre 10 anni si scolora nelle bottiglie in guisa di sembrare vino bianco. Le più ricche famiglie della località di produzione fra i fiumi Piave e Livenza ne tengono in questo stato di decoloramento….”
Diventa tanto importante questo vitigno da essere, agli inizi del ‘900, il dominatore in due aree viticole: l’area compresa tra Conegliano e la strada Callalta ed i fiumi Piave e Livenza, chiamata “zona del Raboso Piave”. Quella più bassa che arriva fino alla provincia di Venezia, soprattutto attorno a San Donà di Piave, è denominata invece “zona del Raboso veronese”.
In quel periodo nell’area del Raboso Piave si producevano complessivamente 100.000 ettolitri di vino di cui circa 80.000 erano di Raboso Piave. Nella zona di Tezze poi, il Raboso rappresentava pressoché l’unico vitigno coltivato.Va subito ricordato che le notizie per il Ministero partivano dalle istituzioni di Conegliano, per cui si indicava soprattutto quell’area, trascurando l’area più a valle – Oderzo-Motta di Livenza- Cessalto – dove pure il Raboso del Piave era diffusamente coltivato.La fortuna di questo vitigno era soprattutto legata alle caratteristiche di acidità del vino che ne favorivano la conservabilità, caratteristica fondamentale in momenti in cui la tecnica enologica non era molto sviluppata.“Il vino del Raboso Piave è molto stimato e ricercato per colorire e dar sapore ai vini deboli e chiari, avendo abbondanza di colore rosso rubino carico. Commercialmente è assai pregiato per il taglio, cui in genere vien destinato, ma considerato ai riguardi enologici, non ha i pregi richiesti per essere un buon vino da pasto”, così scriveva Norberto Marzotto nel 1925.Partendo da quest’ultima valutazione con la ricostituzione dei vigneti, soprattutto nella seconda metà del ‘900, esso è stato progressivamente sostituito da altri vitigni in grado di dare vini meno acidi e più rispondenti ai gusti dei consumatori.
Le caratteristiche del vitigno
Nel bollettino Ampelografico di fine Ottocento si legge che” vicino a Conegliano si coltivano due specie di Raboso, l’una a raspo verde, l’altra a raspo rosso (peccol rosso).Il Raboso a peccol rosso pare distingua dal nostrano nella forma del grappolo per avere acini più piccoli, sferici e per essere spargolo in confronto del nostrano che lo ha serrato ed a acini non sferici, ma un po’ ovali. Il Raboso dal peccol rosso contiene più enocianina, è meno produttivo e dà vino più fino. A Bagnoli nel Padovano, è coltivato con qualche estensione sotto il nome di Friularo il Raboso nostrano o a raspo verdeIl Raboso a peccol rosso, forse a causa della sua inferiore produttività, è scomparso dalla coltivazione. Nel Padovano, nella zona di Bagnoli e di Conselve, invece il Raboso Piaveha continuato con successo, tanto da arrivare anche qui prima all’onore della Denominazione di Origine Controllata, poi, come abbiamo appena scritto, a quello della Denominazione Controllata e Garantita…Il Raboso Piave ha germoglio di colore verde biancastro per il folto tomento che copre sia l’apice che le foglioline apicali. Per questa caratteristica i germogli della lunghezza di 7-8 centimetri, visti da una certa distanza, sembrano ricoperti di neve.
Il tralcio erbaceo è a sezione circolare e un po’ ellittica, ed è di colore verde con riflessi dorati e talvolta bronzati.La foglia è spessa, di dimensioni medie o medio grandi, di forma pentagonale, generalmente con tre lobi, ma a volte ne presenta anche cinque. Il lobo terminale è sempre sviluppato e un po’ lanceolato. Il colore della pagina superiore è verde scuro, opaco, mentre la pagina inferiore si presenta grigio verde chiaro, dato che anche questa è coperta da un fitto tomento feltrato del lembo tra le nervature. Sulle nervature il tomento è invece fitto, ma corto. Le foglie sono di colore verde superiormente, ma nella pagina inferiore, all’inserzione con il picciolo, prendono un colore leggermente rosso.A lembo steso, il seno peziolare si presenta a V aperto, mentre i seni laterali variamente profondi, hanno la base a forma di clava. Il lembo si presenta leggermente ondulato ed è bolloso.Il picciolo, è corto, sottile e di colore verde rosato.Il grappolo è di grandezza media o grande, compatto, di forma cilindrico piramidale, a volte alato. Spesso termina con una espansione detta volgarmente “barba”. Il peduncolo è corto e legnoso.L’acino di media grandezza e di forma sferoidale, è di colore molto scuro, blu nero; la buccia è molto pruinosa, spessa, coriacea. La polpa, un po’ consistente, ha sapore acido ed astringente.I vinaccioli, in numero di due o tre per acino, sono di media grandezza.Il tralcio legnoso è robusto, di colore grigio nocciola.È un vitigno vigoroso, tanto da dare il meglio di sé se coltivato con forme di allevamento espanse, come un tempo l’alberata e successivamente il sistema a raggi.La sua produttività, se messo in condizione di sfogare la propria vigoria, è abbondante e costante.“In terreni buoni la vite di Raboso si sviluppa assai, dura anche 100 anni e produce qualche anno molto abbondantemente“È rustico, ed è poco sensibile alle malattie crittogamiche, quali oidio, peronospora e marciume. Con l’arrivo, in questi ultimi anni anche nelle nostre zone della Flavescenza dorata, ha purtroppo dimostrato verso di essa una certa suscettibilità.Inoltre la precocità di germogliamento lo rende sensibile alle gelate tardive, soprattutto se allevato a filare e a bassa distanza da terra. Matura molto tardivamente; la sua raccolta tradizionalmente si cominciava a fine ottobre per concludersi verso la metà del mese di novembre, quando i grappoli pendevano solitari dai tralci ormai privi di foglie.Le uve di Raboso non hanno generalmente alla raccolta elevati contenuti zuccherini, molto legati all’andamento stagionale, e variano generalmente tra il 14,30 ed il 17,30 %, mentre sempre molto elevati sono i contenuti acidi, che possono arrivare anche al 12 per mille.
Le caratteristiche del vino
Il vino ottenuto dalle uve di Raboso con le tecniche tradizionali, era di colore rosso intenso, con un gradevole profumo particolare che ricorda la marasca, non molto alcolico, al sapore era acido, aspro, dotato di molto corpo. Insomma un vino che ben presto, come visto, ebbe fama di “vino da mezzo taglio” e fu utilizzato per aumentare colore, corpo e acidità di altri vini, soprattutto piemontesi.Per attenuare l’eccesso di acidità e nel contempo aumentarne i contenuti zuccherini, le uve di Raboso venivano un tempo messe ad appassire, sulle “gardize”o “grisiole” usate per i bachi da seta, per un periodo variabile. Il vino che se ne otteneva serviva poi ad ammorbidire e ingentilire l’altro vino prodotto.Anche il Marzotto nel 1925, scrive che se il Raboso è coltivato in particolari terreni “con uva scelta e ben matura, e meglio se riposata alcuni giorni, si può ottenere un vino eccellente spumeggiante e con sapore speciale di viola…”E nei conferimenti alla Cantina di Tezze si trova la riprova di tutto ciò, con la documentazione di consegne di uve passite di Raboso effettuate il 3 dicembre 1935 ed il 6 febbraio 1936 per quantitativi rispettivamente di q 17,53 e q 8,61. In quegli anni si producevano presso la Cantina, due tipologie di vino utilizzando le uve del Raboso Piave e precisamente :
– un Raboso, con le caratteristiche di colore, acidità tipiche del vitigno;
– un Raboso amabile, probabilmente mescolato con il vino ottenuto dalle uve passite.
Anche un “rosatello” veniva prodotto con le uve di Raboso.
Nella Rivista di Viticoltura e Enologia del 1 ottobre del 1900, si legge nell’articolo ”Preparazione di un vino rosso da pasto” di F. A. Sannino:
“La zona più vitifera della parte piana della provincia di Treviso produce due tipi di vino: il Raboso Piave e il vino bianco, fatto in gran parte con l’uva di Verdiso. Ora mentre il Raboso trova facili acquirenti, che lo pagano a prezzi elevati, il vino bianco di pianura e anche quello di collina, ottenuto in terreni fertili o lautamente concimati, stentano ad essere esitati.Molti possidenti sono produttori di Raboso e di vino bianco, e perciò ad essi riesce facile trasformare quest’ultimo in un ottimo vino rosso da pasto.Basta infatti versare sulle vinaccie non torchiate di Raboso il vino bianco, il quale si mescola col vino rimasto nelle vinacce, e da queste scioglie ancora un po’ di tannino e di sostanza colorante”-(da questo testo si evince che un secolo fa nel Trevigiano il Prosecco era ancora un vino trascurato).Vitigno comunque molto eclettico il Raboso: può essere lavorato con macerazione normale, ottenendo un vino colorato, acido, un po’ rustico, dal caratteristico sapore di marasca. Vino che se bevuto in tazza lasciava ben definito il contorno rosso e conservava ancora le stesse caratteristiche dopo anni di invecchiamento.Può essere vinificato in rosato e diventare una piacevole bevanda, che si presenta di un bel colore rosè caratteristico per la sua acidità, stemperata da un sapiente equilibrio tra dolce e frizzante: servito ben fresco è un ideale vino per l’estate.Può essere appassito e qui diventa prezioso, per la resa bassissima in vino, ma soprattutto per le caratteristiche organolettiche che assume. La sua austera struttura è così ammorbidita dal naturale dolce degli zuccheri residui.Può essere vinificato in rossissimo, e diventare correttore di colore e di acidità.Infine può essere vinificato in bianco, senza le bucce, e presentarsi neutro all’olfatto, da utilizzare in soccorso di vini bianchi, anche pregiati, difettosi di acidità.
In questi ultimissimi anni si ha nel trevigiano una riscoperta e un rilancio del vino Raboso del Piave, grazie soprattutto a un vitivinicoltore fra i più attenti e preparati, l’enologo Giorgio Cecchetto di Tezze di Vazzola, il vero autore del rilancio di questo antico e nobile vitigno trevigiano.
Giampiero Rorato
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Alla fine della lettura di questa pagina, la mia mente torna al ricordo di tempi oramai passati quando, nel periodo estivo, si gustava il “friolaro nostran” un vinello dissetante che si maritava molto bene con l’acqua fresca e diveniva la “bevanda”, da non confondere con la graspia.
La “graspia” si faceva invece aggiungendo acqua e un po’ di sale alle vinacce dopo la torchiatura e si beveva nei mesi di fine autunno.
Fino agli anni ’60, le viti del suddetto friolaro venivano allevate legandole all’oppio (acero campestre) e i tralci si stendevano su 6 ed anche 8 pali in legno, piantati attorno alla pianta viva dell’acero e legati con le “strope” (salice giallo)
Nel ricordo di mio padre che mi ha insegnato a coltivare e curare in quel modo la vite, penso che tornerò a piantare alcune piante di acero con sotto le viti di friularo raboso.
Grazie
Giacomo Travaglia
Gentile Giacomo, grazie mille per aver condiviso con noi i suoi ricordi e per averci insegnato qualcosa di nuovo, almeno per molti!
bellissiume interiezioni che mi ricordano la mia fanciullezza, quando d’inverno, seduti intorno ad un grande tavolo in legno di noce, con i nonni,mangiavamo castagne lesse e si beveva vin brulè di vino raboso con chiodi di garofano,cannella fettine di limone,e molto zucchero.
Gentile Mario, grazie per aver condiviso con noi i suoi dolci ricordi!